India – Calcutta
Calcutta
Il viaggio verso Calcutta è stato molto faticoso. Un treno in ritardissimo a causa di monsoni e frane nel Kashmir, una nottata in piedi, ore accumulate per fermate varie nelle diverse stazioni.
Ha ripagato il panorama che mi ha accompagnata lungo il tragitto, a dir poco meraviglioso, tra risaie dalle mille sfumature di verde, colline, villaggi e baracche in paglia, donne che lavavano, bambini in mezzo ai campi con l’acqua alle ginocchia.
Ho raggiunto Calcutta 12 ore dopo il previsto, era quasi mezzanotte. E cosa trovo? Una città dietro a delle sbarre. Hotel chiusi, gueshouse solo per locali, ostelli che non accettavano turisti oltre una certa ora. Al massimo, mi veniva aperta una finestrella tra le sbarre. Cani randagi e gli ultimi venditori di mango o di chai erano gli unici miei compagni in piedi, il resto della città mi è sembrata fortificata e chiusa in sè.
Per fortuna, col tamtam delle persone cui chiedevo informazioni e consigli, tutti mi hanno dato indicazioni. Vai qui, vai lì, non lì perché non vogliono stranieri, nemmeno lì perché è chiuso. E alla fine ce l’ho fatta. Oddio, diciamo che con un grande spirito di adattamento ce l’ho fatta, ma va bene così.
Mi sono fermata a Calcutta qualche giorno. Fatico a darne una definizione o a riassumerla in poche parole. Potrei dire che qui povertà e difficilissime condizioni di vita sembrano ingigantite all’ennesima potenza.
Le immagini passate davanti ai miei occhi, come un film quasi irreale, si sono susseguite in un continuum di strazianti emozioni e milioni di perchè. Cumuli di immondizia, cani randagi, mosche e bimbi in strada, con i vestiti rotti, sporchi, mentre rovistavano tra gli scarti che galleggiavano nelle fogne. Mercati con pezzi di carne appesi e presi d’assalto da decine di corvi che un pó banchettavano tranquilli e un pó ci schittavano sopra senza troppi problemi. Galline legate a mazzi per le zampe, come fossero fiori. Catene di montaggio umane, in cui c’era chi sgozzava, chi spennava, chi spolpava, chi suddivideva carne e interiora…
Ho passeggiato in un quartiere che definiscono degli artisti. Tra le viuzze, un uomo defunto trasportato dagli intoccabili i cui occhi erano coperti da foglie.
Ovunque, decine e decine di persone che si lavavano con l’acqua che rigurgitava da condotte al livello della strada, approfittando del momento per fare pure un pó di bucato da stendere, poi, su piante, muretti o lungo la ferrovia.
Ho visto signore, al mercato dei fiori, che facevano la pipì in piedi.
Case diroccate, più spesso capanne, accentuano la precarietà della città in cui tutto sembra non funzionare e in cui la gente vive apparentemente tranquilla la propria miseria.
Mi sono soffermata spesso a riflettere sulle foto che avrei inviato in Italia. Un palazzo che si riflette sul lago, qualche edificio coloniale, qualche bel museo.
No, non è questa la Calcutta che mi ha così colpita. Sento urlare disperazione, ma forse è solo l’impressione di una occidentale che si pone mille domande senza trovare alcuna risposta plausibile. Perché loro comunque sorridono, comunque sono orgogliosi della loro meravigliosa cucina bengalese da farmi assaggiare, comunque lavorano duramente ma con onestà. Spaccando a mano mattoni, trasportando sulla testa pile di imballaggi pesantissimi, salutandomi al mio passaggio dalla loro baracca di cartone.
Namaste, mi dicono. Con i loro pochi denti, spesso rossi a causa dell’impasto continuamente masticato. Mi danno la mano. I bambini mi corrono intorno, le ragazze mi osservano e ridono, spesso incuriosite e un pó intimorite. Ma basta un sorriso da parte mia per creare complicità, possono avvicinarsi, possono toccarmi.
Maria Teresa di Calcutta ha detto: “Non sapremo mai quanto può fare bene un sorriso”.
Eppure mi sento talmente piccola vicina a loro. Non hanno nulla, spesso il loro fisico è massacrato, deformato per la scarsa salute e da lavori pesanti fin dalla tenera età, ma sanno sorridere. E io, in Italia, mi lamento per la fila al supermercato. Per il caldo, per il freddo. Caspita, io ho la fortuna di avere un supermercato, una casa che posso arieggiare, dei vestiti per ripararmi. E se rompo le scarpe ne acquisto un altro paio. Qui ricuciono le stesse ciabatte di plastica decine di volte.
India 22 - Calcutta